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Ricerca e impresa due mondi che si ***

A colloquio con Loris Maria Nadotti, ordinario di Economia degli intermediatori finanziari, università di Perugia e presidente di PNII cube

Rossella Cravero

Ricerca e lavoro: spesso due mondi che fanno fatica a incontrarsi. Ma da un decennio, anche in Italia, una nuova strada è stata tracciata e le università si vanno collegando sempre di più al mondo delle imprese. Addirittura gli stessi atenei sfornano imprese. Del nuovo ruolo delle università nel campo della formazione al lavoro ne abbiamo parlato con il professor Loris Naotti (nella foto) ordinario di Economia degli intermediatori finanziari presso l’università di Perugia e presidente di PNII cube. “Dall’inizio degli anni 2000 le università italiane hanno cominciato ad impegnarsi in quelle attività che all’estero erano attive già da tempo – spiega -. Queste attività che vanno sotto la definizione di trasferimento tecnologico, consistono nel riversare in applicazioni produttive i risultati della ricerca accademica”. 

In che modo si raggiunge questo obiettivo? 

Ci sono diverse strade per realizzare tutto ciò. Una prima prevede tecnicamente la negoziazione dei brevetti conseguiti nelle università: ossia trasferendo i risultati ottenuti nella ricerca tramite la vendita dei diritti di utilizzo di quei brevetti a cui si è arrivati dalle scoperte realizzate in ateneo. Un’altra modalità, quella più conosciuta e più tradizionale, si basa sull’attività di tipo tradizionale, quando cioè un’impresa privata stipula contratti con le strutture universitarie di ricerca e chiede loro di realizzare per conto terzi, cioè per le imprese, alcune ricerche, i cui risultati poi verranno utilizzati dal committente. La terza, invece, è quella che fa un po’ più impressione e che oggi va più di moda, anche se è quella più rara e sofisticata, consiste nella creazione di impresa dalla ricerca. Quando cioè si ottengono risultati dalla ricerca universitaria capaci di permetterne l’utilizzo prolungato nel tempo, con applicazioni diverse, tali da poterci costruire intorno un’impresa. 

I ricercatori quindi diventano anche manager? Le università si impegnano a spingere i ricercatori-inventori a redigere dei business plan, ossia dei progetti di impresa. Per questo è nata la PNI cube, l’associazione degli incubatori universitari di impresa delle business plan competition universitarie. Può spiegarcelo meglio?

Questa associazione vanta ormai 11 anni di esperienza e annovera 37 atenei tra quelli storicamente più importanti e più grandi per dimensioni. Partecipano tutte le università che comprendono tra le loro facoltà quelle di ingegneria e i Politecnici. La nostra associazione, grazie all’apporto delle università, bandisce delle “business plan competition” a livello regionale, ossia dei concorsi tra progetti di impresa nati dalla ricerca universitaria. Ciascuno di questi business plan competition esprime dei vincitori e questi vincitori vengono raggruppati in categorie tematiche: Life Science, ICT-Social Innovation, Agroo-Food&ampCleantech, Industrial. I vincitori di ciascuna competizione regionale partecipano alla finale che si tiene ogni anno in un luogo diverso, quest’anno il premio nazionale dell’innovazione si celebrerà a Genova il 31 ottobre durante il Festival della Scienza. La scorsa edizione si è tenuta a Bari e l’anno prossimo sarà a Sassari. 

Da chi è composta la giuria del premio? 

Alla finale partecipano mediamente 60 progetti da tutta Italia. A valutare è una giuria composta da non universitari. I giurati sono essenzialmente venture capitalist e manager, per espressa volontà delle università è stata esclusa la partecipazione degli universitari tra i giurati per fare in modo che il criterio di valutazione sia quello del mercato, cioè di chi dovrebbe poi investire in queste nuove aziende. Dopo la selezione generale vengono scelti i quattro migliori business plan, uno per ogni categoria tematica. 

Cosa si vince? 

Ai vincitori vengono erogati premi in denaro, veri contributi in conto capitale. L’anno scorso i premi in denaro sono stati da 25mila euro l’uno, quest’anno vista la crisi e la scarsità di finanziatori esterni, i premi saranno completamente finanziati dalle università che partecipano al concorso e credo che riusciremo ad arrivare sui 15/20mila euro come budget. Queste somme vengono da noi erogate nel momento in cui il business plan si trasforma in un’azienda vera, cioè quando i promotori del progetto costituiscono una società, una srl. Negli ultimi 10 anni, l’associazione, attraverso il premio nazionale dell’innovazione, ha erogato complessivamente quasi 700mila euro di contribuiti alle imprese neocostituite. Avete un quadro della crescita di queste aziende? Durante la cerimonia conclusiva presenteremo un report per capire che fine fanno queste aziende, i risultati nel dettaglio li daremo in quell’occasione, ma posso anticipare che i dati sono confortanti. Le aziende che nascono dai business plan hanno un tasso di sopravvivenza molto alto, misurato anche a tre-quattro anni, sono tutte aziende che pur non facendo fatturati particolarmente alti, sopravvivono e disseminano innovazione. 

C’è una distribuzione omogenea dei vincitori tra le università a livello geografico, o c’è chi fa ripetutamente negli anni la parte del leone? 

È chiaro che i Politecnici, le università del nord come quella di Udine e Padova hanno vinto più frequentemente, ma abbiamo avuto successi molto interessanti anche nelle università del sud come a Sassari, Salerno, Bari. Ci sono inoltre eccellenze anche nel centro sud. Per esempio l’università di Perugia ha un numero di società Spin-Off della ricerca particolarmente alto cioè pari al doppio del peso relativo dell’università: l’università di Perugia pesa sul totale nazionale circa il 2%, le Spin-Off che nascono da questo ateneo sono il 4% del totale. Ci sono quindi realtà particolarmente dinamiche anche nel centro Italia. 

Cosa manca ancora per sviluppare al meglio questa sinergia tra impresa e ricerca? 

Per la prima volta c’è stato un provvedimento dedicato: una legge del 2012, il decreto sulle startup, che per la prima volta in Italia ha riconosciuto l’esistenza nel nostro Paese delle startup innovative. L’aver creato un registro, presso il quale queste startup si possono registrare come tali, permette di avere dei vantaggi per chi investe in queste società. È una norma relativamente recente, ma quando dispiegherà i propri effetti sarà sicuramente un modo per stimolare la nascita di queste startup che stanno continuando a nascere nonostante la crisi, infatti dal 2008 il fenomeno non si è ridotto, anzi. 

Anche nel caso di queste aziende, come per la ricerca, esiste una “fuga dei cervelli”? 

I casi di maggior successo tra le nostre startup si ritrovano tra quelle che hanno avuto la capacità di internazionalizzarsi, che poi è quello che dovrebbe accadere a tutte, visto che il nostro mercato interno in questo momento è debole e fiacco. È chiaro che se queste aziende vogliono crescere devono guardare anche all’estero. Ci sono stati casi in cui le imprese startup universitarie sono state acquistate da aziende estere e comunque anche in questi casi, quando vengono acquisite, cioè spariscono dal nostro territorio, non è un danno perché creano comunque l’effetto di disseminazione dell’innovazione, cioè l’azienda acquisita incorpora dei valori in termini di innovazione che vengono trasferiti nell’azienda incorporante, che magari riesce a utilizzarli più proficuamente. Anche questo quindi è un risultato importante. 

Come monitorate questi risultati? 

Abbiamo ideato un’altra manifestazione che si svolge in primavera, quest’anno a Pisa, l’anno scorso a Rovereto (Tn), che si chiama startup dell’anno, molti ci chiedono di conoscere cosa sia successo alle startup innovative dopo un certo numero di anni, per cui abbiamo pensato di indire un altro concorso tra aziende in attività da almeno tre anni e diamo un premio a quella che in questo lasso di tempo ha raggiunto le migliori performance aziendali. Questa manifestazione è arrivata alla sua ottava edizione, la prossima sarà la nona. In questa circostanza valutiamo non più dei progetti ma delle aziende in attività che vengono analizzate e premiate, una passerella di aziende innovative che sono cresciute molto. Ci sono realtà in cui sono stati raggiunti fatturati di tutto rispetto anche di un milione e mezzo di euro, casi di assoluta eccellenza, come nel caso di chi nel giro di tre anni è arrivata a tre milioni di fatturato. 

Tra le quattro aree tematiche trattate, quali danno maggiori risultati in termini di crescita? 

Le ICT, ora come ora, sono quelle del comparto informatico che hanno i numeri più rilevanti, ma ci sono realtà interessanti anche nel campo manifatturiero, nel settore dell’energia e in quelli emergenti come l’agrofood, che specialmente in Umbria sta dando grandi segni di vitalità anche come startup innovativa, ma questo dipende dalle tipicità delle regioni. L’importante è continuare a creare impresa dalla ricerca.

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