fbpx

Europa poche armi contro il falso ecologico***

E intanto l’Inghilterra istituisce un premio alla pubblicità più ingannevole
  • Laura Di Rubbo

Si chiama greenwashing, letteralmente: riabilitazione verde. Non parliamo di un detergente ecologico e rispettoso dell’ambiente, bensì di una pratica che negli ultimi anni è diventata molto utilizzata dalle grandi aziende per ripulire, in chiave ecologica, la propria immagine o quella dei propri prodotti. 

Avete presente quelle pubblicità di autovetture con un motore a scoppio inventato più di un secolo fa ma che dichiarano di essere amiche dell’ambiente? Ecco, quello è un esempio di greenwashing. Alcuni settori, energetico e dei trasporti in primis, pur di attirarsi le simpatie dei consumatori, sempre più attenti ai temi ambientali, esagerano o danno false informazioni sulle performance ambientali dei propri prodotti o sulla diminuzione delle emissioni di carbonio delle loro fabbriche.

Le pubblicità ingannevoli che vengono proposte al pubblico, però, sempre più spesso vengono smascherate da associazioni di consumatori o da giudici nazionali, ottenendo un risultato doppiamente negativo per l’azienda, che viene così connotata come “non rispettosa dell’ambiente e falsa“. 

Nel Vecchio Continente, la legislazione in materia non è univoca e le aziende sfruttano le differenti legislazioni nazionali per veicolare messaggi più o meno falsi. Benché l’Unione Europea abbia approvato nel 2005 l’Unfair Commercial Practices Directive, con cui si cercava di ottenere la massima armonizzazione su ciò che potesse essere definito un annuncio pubblicitario illecito o fuorviante, la situazione nei vari Stati è ancora disomogenea.

Se molto si è fatto soprattutto in ambito di frodi alimentari, come le false certificazioni Doc o Docg, poche sembrano essere le armi nei confronti di chi fa pubblicità ingannevole nei confronti dell’ambiente. Ancora una volta l’unico rimedio efficace sembrano essere le associazioni dei consumatori, che riescono ad ottenere grandi vittorie, se non giuridiche almeno di opinione pubblica, costringendo le aziende a fare un passo indietro. 
International Consumer, Ong britannica che si batte per i diritti dei consumatori, ha organizzato nel 2009 il “Green Washing Awards” per premiare le pubblicità più ingannevoli sui temi ambientali.

Vincitrici della prima edizione sono state la casa automobilistica Audi per lo spot dell’Audi A3 Tdi che, dotata di un diesel “pulito”, veniva addirittura equiparata ad una bicicletta la ormai tristemente famosa Bp, azienda petrolifera britannica, che oltre ad essere stata causa del disastro ecologico nel Golfo del Messico, dichiarava in uno spot il proprio impegno a favore delle energie rinnovabili, ma poi concretamente continuava ad investire in modo sostanzioso nel settore dei combustibili fossili. 
O ancora la compagnia aerea Easyjet, che lasciava intendere che volare a bordo dei suoi voli, da un punto di vista ambientale, ha un impatto equiparabile a quello di un’automobile ibrida.

Le cose non vanno meglio se si tralascia la comunicazione pubblicitaria e ci si concentra sulle caratteristiche enunciate sulle confezioni dei singoli prodotti. Secondo un’indagine svolta da una società di marketing canadese, TerrachoiceInc., su ben 1.800 prodotti presenti in un centro commerciale e recanti messaggi ambientali, ben 1.071 non rispettano la norma internazionale di riferimento, la Iso 14021, e offrono quindi un’informazione scorretta o fuorviante. 

Come difendersi dunque da pubblicità ingannevoli e prodotti falsamente amici dell’ambiente se la legislazione in materia non dà una certezza giuridica di azioni riparatorie? 

Una possibilità potrebbe essere quella di agire sulle aziende come ha deciso di fare la Francia dove l’Ademe, Agence de l’Environnement et de la Maitrise de l’Energie, ha da poco realizzato una guida per “riconciliare i messaggi della comunicazione all’ecologia“.

L’obiettivo è quello di aiutare le aziende a fare una comunicazione non falsamente ecologica “evitando ad esempio di instillare il dubbio e la confusione nello spirito dei consumatori su ciò che è ecologico e legato allo sviluppo sostenibile e ciò che non lo è”.

Un’altra opzione potrebbe essere quella scelta dal Canada, dotatosi da alcuni anni di regole ferree in materia che impongono, ad esempio, l’onere della prova all’azienda per le asserzioni ambientali della propria comunicazione.

In attesa che anche in Europa vengano adottate regole simili o che le regole della certificazione alimentare contro le frodi vengano estese anche all’ambito ambientale, l’unico metodo per difendersi dalle suggestioni ambientaliste ed ecologiste di alcune aziende sembra essere ancora una volta l’informazione.

Leggere le etichette e confrontarle con le regole dell’Iso 14021 ad esempio, e soprattutto condividere i propri dubbi sulla liceità di alcune informazioni con associazioni per i diritti dei consumatori. Conoscere e far conoscere aiuterà a tenere lontano le sirene incantatrici della falsa propaganda e a smascherare pubblicamente i falsi profeti ecologici.

La paura per il deterioramento della propria immagine pubblica costringerà le varie aziende verso registri comunicativi più virtuosi e sicuramente più veritieri, più di quanto possa riuscire a fare qualsiasi condanna giuridica. 

Condividi su facebook
Facebook
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su linkedin
LinkedIn
Condividi su pinterest
Pinterest