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Condono edilizio, danno collettivo***

Urbanizzazione incontrollata, ma anche incapacità di prevenzione: questi i punti dolenti del sistema Italia secondo Nicola Casagli, docente di geologia all’Università di Firenze

10/03/2013

Veronica Ulivieri

L’Italia che frana, si sgretola e crolla in modo sempre più frequente. Alla base di questa situazione, in cui basta una perturbazione più intensa a mettere in ginocchio interi territori, c’è “un’urbanizzazione incontrollata, iniziata negli anni Sessanta, che ha comportato un’enorme aumento dell’esposizione al rischio idrogeologico”, spiega Nicola Casagli, docente di Geologia all’università di Firenze. E se L’Italia è “all’avanguardia nel mondo per gli strumenti di prevenzione e allerta”, spesso è afflitta dalla “mancanza di percezione del rischio. Quando si costruisce o si compra una casa, nessuno considera se è costruita in un luogo esposto a frane o alluvioni”. 


Professor Casagli, il clima sta cambiando e sono sempre più frequenti perturbazioni intense, che anche recentemente hanno causato frane e alluvioni. Qual è il punto di non ritorno nella storia del dissesto geologico italiano? 
I cambiamenti climatici sono graduali. C’è una tendenza naturale al riscaldamento, iniziata nel 1850, che poi ha subito una forte accelerazione a causa dell’effetto serra, dato dalle emissioni legate all’utilizzo di combustibili fossili. Il punto di non ritorno si colloca negli anni Sessanta, quando c’è stato un enorme aumento dell’esposizione al rischio idrogeologico. È iniziata in quel periodo un’urbanizzazione incontrollata, con edificazioni in zone ad alto rischio, sopra frane o vicino ai fiumi. Fino a quel momento, anche con un clima migliore o peggiore, le conseguenze degli eventi idrogeologici erano state molto minori. Il dissesto idrogeologico non è dovuto alla natura, che ha sempre fatto il suo corso. 

Certi eventi meteorologici sono diventati più rischiosi per il modo in cui si è costruito. Com’è stato possibile che il cemento sia arrivato in così tante aree a rischio? 
Il boom economico del secondo dopoguerra è stato trainato in Italia anche dall’industria dell’edilizia. Negli anni della ripresa si sono costruiti nuovi quartieri e intere periferie. All’epoca non c’erano leggi adeguate: la normativa urbanistica risaliva al 1943, ma sfruttandone le lacune si è potuto abusare parecchio del territorio. Il disastro del Vajont, l’alluvione di Firenze e la frana di Agrigento, avvenuti il primo nel 1963 e gli altri nel 1966, portarono a una nuova legge urbanistica. Il testo prevedeva un’urbanizzazione programmata e controllata, condotta sulla base di Piani regolatori che individuassero le destinazioni d’uso delle diverse aree. È conosciuta come legge Ponte, perché doveva essere un provvedimento provvisorio, ma a più di 45 anni di distanza, il ponte è ancora appeso! Mentre veniva discussa in Parlamento, furono rilasciate circa 1 milione di concessioni edilizie, richieste da chi temeva che in certe aree non si sarebbe più potuto costruire. 

Quali effetti ha avuto la legge nel quadro dell’abusivismo edilizio italiano, legato indissolubilmente al dissesto idrogeologico? 
La legge offre mille spiragli e su di essi si sono innestati i condoni che sanano tutte le situazioni di violazione delle norme. I principali sono stati tre: nel 1985, nel 1995 e nel 2003. L’ultimo tentativo, vano, di introdurre una nuova sanatoria risale a ottobre 2012, quando un gruppo di senatori ha presentato un disegno di legge per la riapertura dei termini del condono di dieci anni fa. Per effetto dell’annuncio del condono di metà anni Ottanta, furono costruiti 230.000 edifici in zone a rischio, 40.000 prima di quello del 2003. In totale, si calcola che in Italia ci siano 6,5 milioni di edifici costruiti in zone a rischio idrogeologico. Gli abusi edilizi non sono solo violazioni della legge, ma opere che recano un danno a tutta la collettività: un edificio costruito in un’area golenale o su un argine del fiume, per esempio, mette a rischio una vasta porzione di territorio sia a monte che a valle. 

La prima carta geologica dell’Italia, la “mappa dei territori a rischio”, venne creata da Quintino Sella. È stata mai aggiornata? 
Quella di Sella, completata in realtà degli anni Settanta, è in scala 1:100.000. Era adatta per le esplorazioni minerarie, ma non forniva dettagli sufficienti per la pianificazione del territorio. Per questo dieci anni dopo lo stato ha avviato, in collaborazione con le Regioni, la creazione di una carta di maggior dettaglio, in scala 1:50.000, che però è stata completata solo al 40%. La maggior parte delle Regioni sono cioè state mappate in media per meno della metà, e alcune, come la Puglia e la Calabria, risultano completamente scoperte. 

Com’è possibile che si vada ad abitare in un luogo a rischio e che le pubbliche amministrazioni lo permettano? 
Nessuno pensa ai pericoli. Quando si costruisce o si compra una casa, si guardano il sistema di riscaldamento, le finiture, la luminosità, ma nessuno considera se è costruita in un luogo a rischio frana o alluvione. Quando si parla di disgrazie, comunemente siamo sempre portati a pensare che colpiranno gli altri. Per questo, per supplire alla mancanza di percezione del rischio del cittadino, è necessario che intervenga lo Stato. Solo così questa consapevolezza si può pian piano diffondere tra le persone. 

Quanto pesa la mancanza di investimenti in prevenzione? 
Moltissimo. In Italia sono state fatte anche cose buone, che rendono l’Italia all’avanguardia nel mondo, anche rispetto Paesi più a rischio e più avanzati di noi, come il Giappone o la California: dopo l’alluvione di Sarno, nel 1998, sono state mappate dalle Autorità di bacino tutte le aree italiane a rischio frana e alluvione, abbiamo un’ottima legge antisismica varata nel 2009, dopo il terremoto dell’Aquila, e un sistema di previsione e allerta dei disastri idrogeologici unico a livello mondiale. Tuttavia, negli ultimi anni, tutto quello che c’era di positivo è stato tagliato o non sostenuto con adeguati finanziamenti. Il nostro Paese investe in prevenzione del rischio 130 volte meno che in armamenti. Si privilegia cioè la difesa verso una minaccia che di fatto non esiste alla prevenzione di pericoli reali, che in media causano 60 morti all’anno. Lo stesso numero di vittime che nella missione italiana in Afghanistan c’è stato in dieci anni. Di solito, i morti per frane e alluvioni sono anziani, disabili, bambini: persone deboli, che non riescono a fuggire. 

Bisognerebbe investire di più anche in educazione? 
L’educazione è fondamentale. A scuola, in Italia, si fanno poche Scienze, ancor meno si insegnano le Scienze della terra, che spesso oltretutto si riducono allo studio di grandi fenomeni, come i vulcani o gli oceani. Quasi mai si spiega agli studenti cosa sono una frana o un terremoto e come ci si comporta in caso di disastri simili. Una materia che dovrebbe diventare obbligatoria a partire dalle scuole primarie. Anche a livello universitario la situazione non è rosea. Ci troviamo in una situazione molto preoccupante. Quella delle Scienze della terra è una comunità scientifica piccola e per effetto della riforma Gelmini, che prevede ci debbano essere minimo 40 docenti dello stesso settore per tenere aperto un dipartimento, molti stanno chiudendo. In un Paese come il nostro, afflitto quotidianamente dal dissesto idrogeologico, al sesto posto nel mondo per la produzione scientifica in questo ambito, si sta disperdendo la preziosa cultura geologica. Il dipartimento di Bologna, dove Ulisse Aldovrandi nel 1603 coniò la parola “geologia”, è stato chiuso nel 2012. La stessa sorte è toccata a quello di Siena. Il dipartimento di Firenze è ancora aperto, ma chissà per quanto tempo ancora funzionerà. Oltretutto, non si è seguita una linea logica nell’accorpamento ad altri dipartimenti: in alcuni casi siamo finiti con Botanica, in altri con Chimica, o Fisica, o Ingegneria. 

Il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha recentemente lanciato un Piano per combattere il dissesto idrogeologico, prevedendo investimenti per 40 miliardi in 15 anni. È sufficiente secondo lei? 
In realtà il Piano non è una novità. Era già stato elaborato negli anni Sessanta dopo l’alluvione di Firenze e aggiornato negli anni Novanta dalle Autorità di bacino. Anche la dotazione era la stessa: 9 miliardi di lire era il fabbisogno stimato per mettere in sicurezza idrogeologica il Paese a conclusione dei lavori della Commissione De Marchi nel 1974; considerando le opere già realizzate e lo sviluppo delle tecnologie, tale stima è equivalente ai 40 miliardi di euro del Piano del ministro Clini di oggi. Abbiamo tutto, bisogna solo decidersi a investire.

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